Cibo di strada per 2 italiani su 3, ma a rischio estinzione

street food- marcopolonewsLo chiamano “street food” con il solito trito anglicismo provincialistico italiano. In realtà è il cibo di strada. Quasi due italiani su tre, il 65%, lo hanno consumato quest’anno con una domanda che cresce con l’arrivo dell’estate perché concilia la praticità con il costo contenuto, ma anche perché rappresenta una forma di vendita particolarmente apprezzata dai turisti. È quanto emerge da un sondaggio condotto dal sito www.coldiretti.it e divulgato in occasione della mobilitazione di migliaia di agricoltori a Roma per difendere l’identità alimentare nazionale che però rischia di sparire dai centri storici, dove ha rappresentato per secoli un valore aggiunto inestimabile dal punto di vista culturale e turistico.

Tra coloro che mangiano cibo di strada a essere nettamente preferito dall’81% per cento è infatti il cibo della tradizione locale che va dalla piadina agli arrosticini fino agli arancini; mentre il 13% sceglie quello internazionale come gli hot dog e solo il 6% i cibi etnici, come il kebab, ma in netto calo rispetto al passato. “Una conferma che la scoperta del territorio e dei suoi prodotti tipici rappresenta un valore aggiunto inestimabile che purtroppo rischia di sparire dalle strade e dalla piazze delle città italiane sotto la pressione dell’omologazione”, ha affermato Roberto Moncalvo, presidente della Coldiretti nel sottolineare che “con la scomparsa dei piatti tipici si perde un pezzo di storia delle città”.

Il fenomeno del cibo di strada, infatti, ha radici molto antiche che risalgono al tempo dei Romani, quando gran parte della popolazione era spesso solita gustare i pasti in piedi e velocemente in locali aperti in prossimità della strada. Per questo l’Italia, con le sue numerosissime golosità gastronomiche, può vantare una tradizione millenaria, come dimostrano le diverse specialità locali apprezzate dagli amanti dello street food, come gli arancini siciliani, la piadina romagnola, le olive ascolane, i filetti di baccalà romano, gli arrosticini abruzzesi, la polenta fritta veneta, le focacce liguri, il pesce fritto nelle diverse località marittime e gli immancabili panini ripieni con le tipiche farciture locali che vanno dai salumi ai formaggi, senza dimenticare la porchetta laziale.

street food 1- marcopolonewsCon gli stili di vita salutistici, poi, c’è spazio anche all’innovazione nella tradizione con miracolose nuove pozioni naturali con la crescente offerta di prodotti salutistici come la frutta presentata in tutte le diverse forme, dai centrifugati ai frullati, dagli smoothies ai pezzettoni, insieme alla classica fetta d’anguria. Un patrimonio che va adeguatamente tutelato poiché può rappresentare un volano economico dalle grandi potenzialità, specie se si considera che nell’Italia del futuro ci saranno più di due cuochi per ogni operaio, con la crisi che ha cambiato profondamente le aspirazioni dei giovani e ha provocato il crollo delle iscrizioni agli istituti professionali a indirizzo industriale rispetto al boom delle scuole di enogastronomia e turismo, come dimostrano le iscrizioni all’alberghiero degli ultimi anni.

In Italia c’è stata una crescita record del 13% della ristorazione ambulante rispetto allo scorso anno, con ben 2.271 imprese impegnate nella preparazione di cibo per il consumo immediato nei banchi del mercato o con furgoncini attrezzati. Secondo lo studio “Cibo di strada tra rischi ed opportunità”, La Lombardia con 288 realtà e un incremento annuo del 26% è la regione dove la ristorazione ambulante è più presente. Ma sul podio salgono anche la Puglia (271) e il Lazio (237), mentre una diffusione consistente c’è anche in Sicilia (201), Campania (189), in Piemonte (187), Veneto (161) e Toscana (142,) secondo le elaborazioni Coldiretti su dati Unioncamere relativi al marzo 2016.

Il problema è che i cibi più rappresentativi dell’identità alimentare nazionale spariscono dopo secoli dai centri storici dove si perde così un patrimonio culturale e turistico oltre che economico e occupazionale. Dal kebab al sushi, dalla frutta esotica a quella fuori stagione, ma anche le caldarroste congelate durante tutto l’anno si trovano ovunque, mentre per il baccalà fritto da passeggio a Roma, l’intruglio della Versilia o il panino e milza a Palermo i turisti sono costretti a cercare su internet o nelle guide.

Alla crescita si accompagna una preoccupante perdita del radicamento territoriale e un impoverimento della varietà dell’offerta. Ma anche uno scadimento qualitativo con preoccupanti riflessi sul piano sanitario. Si assiste, in particolare, ad un progressiva tendenza alla distribuzione in commercio nei centri storici di alimenti lontani dalle tradizioni gastronomiche locali, con un appiattimento e una takeaway-venetoomologazione verso il basso che distrugge le distintività. Il risultato è che i turisti trovano da Palermo a Milano gli stessi cibi di New York, Londra o Parigi. Una situazione che ha già portato realtà turistiche di prestigio internazionale come Firenze a valorizzare il cibo locale nelle nuove aperture in centro storico con l’obiettivo di considerare anche il commercio alimentare come un “patrimonio immateriale culturale” da tutelare, alla pari di quello architettonico. L’intenzione è quella di evitare la standardizzazione degli esercizi verso tipologie lontane dalla tradizione e cultura territoriale lasciando poi ad una Commissione il compito di valutare eventuale deroghe.

A sostenere questo percorso di qualificazione dell’offerta alimentare ci sono gli oltre mille mercati degli agricoltori che si sono diffusi in molte grandi e piccole città grazie alla Fondazione Campagna Amica che ha realizzato la più vasta rete di vendita diretta a livello mondiale. In questi mercati si trovano prodotti locali del territorio, messi in vendita direttamente dall’agricoltore nel rispetto di precise regole comportamentali e di un codice etico ambientale, sotto la verifica di un sistema di controllo di un ente terzo. Nei mercati c’è grande attenzione alla sostenibilità con la distribuzione delle “agribag“, ossia pratici contenitori innovativi anche per il consumo itinerante che consentono di non buttare via niente e tagliare gli sprechi.

“Portare nelle piazze e nelle strade dei centri storici le specialità custodite dalle campagne limitrofe per generazioni arricchisce l’offerta storico culturale di cui il patrimonio gastronomico fa integralmente parte”, ha concluso il presidente Moncalvo nel sottolineare che “la realizzazione di farmers market, di punti di filiera corta, di chioschi dello street food risponde ad un più ampio disegno di ridefinizione di comportamenti di consumo nelle città più attenti alle aspettative dei cittadini e soprattutto dei turisti”.

 

 

di Eleonora Albertoni

14 Giugno 2016